Le case delle donne nel Mediterraneo
Una rete di esperienze tiene insieme i movimenti femministi, da sempre
Su
questo mare che sta in mezzo alle terre si affacciano donne di Paesi
diversi con esperienze comuni, tra queste “costruire case”, case delle
donne: “spazio pubblico separato” secondo la tradizione femminista
separatista italiana, “spazio pubblico protetto” secondo le donne di
“Dar (casa) Rayhana” a Jendouba in Tunisia o di “Hapat e Lehtë” (Passi
Leggeri) in Albania e quelle di “Villa5” a Collegno.
Ma
è un ossimoro parlare di spazi pubblici protetti o separati? No. Un
punto di vista politico. Oltrepassando simbolicamente il significato, la
soglia del “privato” della casa, le donne le trasformano in luoghi di
soggettività collettiva. Spazi poliedrici, dove si mescolano saperi, si
offrono opportunità e servizi. Vi si trovano infatti biblioteche, centri
di documentazione, ristoranti, sale culturali, centri antiviolenza,
consultori, palestre, radio, sportelli di consulenza.
Sono
luoghi dell’imprendere e dell’intraprendere tra donne. Mantenere la
loro autonomia richiede molto impegno, competenze, risorse economiche,
costanza e libertà. Ne ho fatto esperienza negli anni ‘70 con
l’occupazione della “Casa delle donne” di Torino, nei primi anni 2000 a
“Villa5”, una villa dell’ex ospedale psichiatrico di Collegno che
abbiamo trasformato, noi dell’associazione O.N.D.A organizzazione no profit donne associate,
facendo impresa, servizi, cultura e negli ultimi 10 anni, quelli che mi
hanno portato dall’associazionismo europeo ai territori della
cooperazione insieme a COSPE.
L’esperienza
con COSPE è stata per me possibile e positiva perché rispetta due
parametri fondamentali: la libertà delle donne (anche la mia nel lavoro
con loro) e la volontà di non esportare modelli precostituiti.
Frequentemente ci si trova invece di fronte a comportamenti
paternalistici, si va ad “insegnare” alle donne in base alla propria
cultura e formazione, le si relega in una posizione di disempowerment per aver ricevuto delle risorse economiche.
Nessuno
è esente da queste trappole, ma si può cercare di evitarle, di
de-costruire modelli patriarcali costruendo relazioni basate sul
riconoscimento di somiglianze e differenze, mettendo “a tema la
questione della posizione dei soggetti all’interno dei sistemi di potere
e di dominio in quanto continuamente definita e ridefinita da
molteplici assi di differenziazione: di sesso, razza, classe, identità,
scelta o orientamento sessuale, religione, età.” (L. Ellena e V. Perilli “Intersezionalità” in ”Femministe a parole” – Ediesse Edizioni 2012).
I
percorsi per la costruzione di soggettività collettiva delle donne sono
lunghi, articolati e complessi, mai lineari a nessuna latitudine. Sono
processi lenti, fatti di passi avanti e indietro, vanno in profondità,
portano in luce le differenze. “Le differenze non si superano, le
differenze si comprendono; l’uguaglianza non si raggiunge, l’uguaglianza
si riconosce. E questo ho imparato che lo si può fare non stando ognuna
a casa propria, ma guardandosi negli occhi, non limitando le lotte ma
stando sui margini, non creando gerarchie ma mescolando le carte. Non è
la differenza a immobilizzarci, ma il silenzio.
E
ci sono tanti silenzi da rompere” così parlava Audre Lorde al convegno
su “Lesbiche e Letteratura” della Modern Language Association nel
dicembre del 1977 e così è ancora. Quelli che accompagniamo sono
processi di empowerment individuale e collettivo che coinvolgono
attivamente le donne facendo emergere le loro competenze al fine di
esercitare un realistico controllo sugli eventi, far fronte ai
cambiamenti e produrre loro stesse condizioni di cambiamento per
infrangere la cultura della delega e dell’assistenzialismo.
Ma
è impossibile ottenere cambiamenti nella società se a un accrescimento
dell’empowerment delle donne non corrisponde un riconoscimento del ruolo
sociale che loro si danno e degli interessi di cui sono portatrici che
devono trovare riscontro nelle politiche. Spesso tutto ciò passa per
percorsi di separatezza e di aspra critica alla società patriarcale,
toccando tutti gli aspetti della vita delle donne. Le case delle donne
sembrano tenere insieme questa complessità. Spesso nati sull’impellenza
di rispondere a gravi situazioni di violenza, discrimine, povertà e
fragilità delle donne, i centri delle donne oggi sono soggetti di nuove
sfide.
Rinnovano la loro stessa
logica di intervento passando da una fase di protezione delle donne ad
essere soggetti attivi delle loro comunità, capaci di sfidare il limite
dell’autonomia economica e i cliché che le vogliono non adatte a fare
impresa. Ma gli esempi di imprese nate da centri donne sono molti e c’è
una visione strategica dietro a questa sfida: l’“economia della vita”.
Partendo da temi importanti della vita quotidiana – la sicurezza
alimentare, la prossimità, il tempo, l’organizzazione dei servizi, la
salute e tutto quell’insieme di attività di cui ancora oggi si occupano
prevalentemente le donne – mettono in discussione modelli di “sviluppo”.
Partendo
dal privato elaborano pensiero critico collettivo e agiscono sul piano
pubblico. Pratiche, pensieri e soggettività che escono dalla sfera della
casa per entrare in quella dei territori. In Tunisia, le donne di
“Rayhana” nella loro casa e giardino, in tre anni hanno fatto
aggregazione, alimentato gruppi di riflessione e dato vita ad una radio
comunitaria, sviluppando un pensiero critico sui consumi. Insieme alle
donne rurali, portatrici di savoir faire tradizionali,
hanno creato un progetto di filiera corta agroalimentare di qualità.
Inoltre si occupano di acqua e rifiuti nella loro città in una
prospettiva di rigenerazione comunitaria.
“Dar
Rayhana” ha un orto collettivo biologico, un bed and breakfast e una
palestra – non esisteva prima un luogo accessibile alle donne per
prendersi cura del corpo, che non fosse l’hammam. Le donne di “Hapat e
Lehtë” hanno messo nel cuore della loro casa tre attività la cui
convivenza può sembrare impossibile, eppure funzionano e restituiscono
il senso del tenere insieme impresa e impegno sociale delle donne di
Scutari: un B&B, un asilo e un centro anti-violenza.
A
pochi passi dalla casa hanno aperto un ristorante popolare dal
curatissimo design tradizionale albanese, come la loro cucina. Queste
donne stanno amministrando i loro beni e si occupano attivamente di beni
comuni. In Albania e in Tunisia, COSPE ha messo a disposizione
expertise, risorse economiche e tempo. Tre sostegni che è necessario
avere simultaneamente, tre ingredienti che devono avere qualità
appropriata, dosi giuste, tempi adeguati.
Condizioni
che, purtroppo, non si verificano sempre e non con la continuità
necessaria a sostenere la determinazione e la disponibilità ad
affrontare rischi e cambiamenti che ci mettono le donne protagoniste di
queste storie. Storie fatte di successi e insuccessi, di
stratificazioni, di relazioni, di fiducia reciproca e di verifiche, di
momenti di crisi e di rinascite, ma le case “Rayhana”, “Hapat e Lehtë”,
“Villa5” e tante altre, sono attive (alcune da più di un decennio) e
aperte a chi abbia voglia di mettersi in relazione con loro.
di Susi Monzali, esperta di progettazione in ottica di genere consulente per COSPE in Tunisia e Albania
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